Colmare il divario: sguardi occidentali e esperienza mistica indiana in Verso Benares di G. Vignali e G. Prata e nel panorama del cinema indiano
Il rapporto tra i cineasti occidentali e l’esperienza mistica indiana è un dialogo affascinante, che si è evoluto profondamente nel corso dei decenni. In questa conversazione, il documentario italiano Verso Benares, diretto da G. Vignali e G. Prata, si impone come un’opera potente e originale. Uscito nel 2022, il film propone un viaggio non narrativo e osservativo nel cuore della città sacra dell’induismo, offrendo un netto contrasto rispetto alle rappresentazioni cinematografiche e letterarie precedenti, e aprendo a un nuovo modello di incontro interculturale.
A differenza delle narrazioni finzionali che seguono un protagonista in cerca di illuminazione, Verso Benares è un poema visivo. Non si affida ai dialoghi, a un personaggio centrale o a una trama tradizionale. La macchina da presa dei registi diventa invece un osservatore silenzioso, che cattura i rituali, i ritmi e la profonda devozione sulle rive del Gange. Questo approccio, radicato nella tradizione documentaria occidentale, permette allo spettatore di entrare in diretto contatto con il paesaggio spirituale. Il film evita spiegazioni e interpretazioni, invitando lo spettatore a percepire il peso della storia della città e a testimoniarne la fede vissuta.
Il contributo del film si comprende meglio se inserito nel contesto più ampio del cinema indiano e internazionale. Storicamente, i film occidentali hanno spesso rappresentato l’India attraverso una lente esotizzante, usando la sua spiritualità come sfondo per il percorso interiore di un personaggio straniero. Questo approccio, pur diffuso, ha spesso rischiato semplificazioni e travisamenti. Al contrario, Verso Benares rimuove del tutto la figura del personaggio occidentale centrale, spostando il fuoco sul soggetto stesso. È un gesto rispettoso: lo sguardo non è rivolto verso l’interno, ma verso l’esterno.
Allo stesso modo, all’interno del ricco panorama del cinema indiano, i temi religiosi vantano una lunga e variegata tradizione. Se molti film indiani — soprattutto del genere mitologico delle origini — miravano a celebrare e spiegare i principi religiosi a un pubblico domestico, Verso Benares offre invece una prospettiva esterna e contemplativa. Non cerca di raccontare una storia religiosa, ma di catturare l’essenza di un luogo dove la religione è inseparabile dalla vita quotidiana. Il film diventa un ponte, permettendo a un pubblico globale di assistere alla potenza silenziosa della devozione senza i filtri di una trama o di un personaggio emotivamente riconoscibile.
Cinema contemplativo ed etica dello sguardo
Ciò che distingue più profondamente Verso Benares è la sua etica dello sguardo. In un’epoca dominata dal montaggio rapido e dalla manipolazione emotiva, il film sceglie la quietezza, il silenzio e la durata. Non tenta di drammatizzare il sacro né di sentimentalizzare la povertà. La camera resta ferma — a volte in modo quasi scomodo — lasciando che i momenti si sviluppino naturalmente, permettendo ai suoni ambientali, al movimento dell’acqua, al tremolio del fuoco di parlare da soli.
Questo metodo colloca il film all’interno della tradizione del cinema contemplativo, accanto a registi come Robert Gardner, Ron Fricke o Nicolas Philibert, che hanno usato il mezzo cinematografico come strumento di osservazione meditativa. Tuttavia, Verso Benares offre qualcosa di particolare: la fusione di una sensibilità documentaria europea con un soggetto metafisico orientale, trattato con umiltà piuttosto che con autorità.
Eliminando ogni struttura narrativa, i registi permettono a Varanasi di apparire non come un semplice scenario, ma come un organismo vivente — complesso, stratificato, contraddittorio. La struttura del film rispecchia il flusso del Gange stesso: sinuoso, ciclico, non lineare. Ed è proprio questa qualità che riflette una verità filosofica più profonda: il sacro, nelle tradizioni indiane, non è lineare, ma ritmico, sempre presente, intrecciato alla dimensione del quotidiano.
Una nuova grammatica del dialogo interculturale
Verso Benares propone una nuova grammatica del cinema interculturale — una che non si fonda sulla traduzione o sull’interpretazione, ma sull’esperienza e la prossimità. Invece di appropriarsi del significato, il film si ritrae e lascia che il significato emerga da sé. Rispetta ciò che è indicibile, ambiguo, ineffabile.
Questo approccio si distingue nettamente dalle narrazioni classiche in cui l’Oriente è filtrato attraverso il percorso interiore dell’Occidente. Qui, il sacro non è metafora della trasformazione di un personaggio: è il protagonista. La città, l’acqua, i rituali diventano il centro gravitazionale dell’intera opera.
Così facendo, Verso Benares contribuisce a un cambiamento importante nel documentario globale: un movimento verso una attenzione reciproca, in cui il filmmaker è meno un narratore e più un ospite. In un’epoca di saturazione visiva, in cui le immagini vengono consumate più velocemente di quanto possano essere elaborate, una proposta del genere appare sia radicale che necessaria.
Conclusione: verso uno sguardo sacro
Verso Benares non è solo un film su una città santa — è un invito a guardare diversamente. A osservare lentamente, senza chiedere. A lasciare che il significato emerga nel silenzio. Nella sua rinuncia a interpretare o a spiegare, diventa un’esperienza spirituale in sé — uno dei rari casi in cui il cinema non si limita a rappresentare il sacro, ma vi partecipa.
Nel colmare il divario culturale senza sconfinare nell’appropriazione, il film onora sia il suo soggetto che il suo pubblico. È un modello di umiltà cinematografica, e una testimonianza del fatto che, a volte, la forma più rispettosa di narrazione è il silenzio condiviso.