Una lettura mistica e poetica di Varanasi da parte dell’autore di L’Inde (sans les Anglais)
Nel 1903, lo scrittore e ufficiale di marina francese Pierre Loti pubblica L’Inde (sans les Anglais), un diario di viaggio in cui racconta il suo soggiorno in India, con particolare attenzione alla città sacra di Benares, oggi nota come Varanasi. Loti, celebre per il suo stile lirico e la sua sensibilità esotica, si propone di esplorare l’India spirituale, volutamente ignorando la presenza britannica. Il sottotitolo – “senza gli Inglesi” – è una dichiarazione d’intenti: restituire l’esperienza dell’India profonda, quella dei riti, dei colori, degli odori e del sacro che permea ogni gesto quotidiano.
“J’ai voulu voir l’Inde sainte, celle qui prie, qui brûle ses morts, celle qui se perpétue hors du temps”
(Pierre Loti, L’Inde sans les Anglais, 1903)
Una mistica della visione
Loti arriva a Varanasi all’alba. La città si dispiega ai suoi occhi come un palcoscenico del sacro, un “mistero immobile” in cui la vita e la morte coesistono in rituali che si ripetono da millenni. Le rive del Gange, con i loro ghats funerari, lo affascinano e lo turbano.
“À Bénarès, la mort est partout. Elle n’est plus tragique, elle est une forme de la vie, un moment lumineux de la transmigration.”
(Ibid.)
L’esperienza spirituale che Loti vive non è una conversione, come nel suo romanzo Aziyadé, ambientato a Istanbul, ma una immersione estatica. L’occidentale diventa pellegrino, lo sguardo razionale si lascia attraversare da un sentimento dell’eterno che non pretende spiegazioni.
Il confronto con altri viaggiatori occidentali
Pierre Loti non è il solo a restare soggiogato dalla forza mistica dell’India. Anche Mark Twain, nel suo Following the Equator (1897), descrive Benares come “older than history, older than tradition, even older than legend.” Tuttavia, laddove Twain mantiene un tono ironico e talvolta distaccato, Loti sceglie la partecipazione poetica, l’immersione sensoriale.
Altro confronto significativo è con Romain Rolland, che negli anni Venti esalterà l’esperienza indiana nei suoi scritti su Gandhi e il pensiero vedico. Ma se Rolland cerca l’India filosofica, Loti cerca l’India del rito, della visione, della fiamma e dell’acqua.
Una sacralità senza tempo
Loti scrive in uno stile evocativo, dove la narrazione si fonde con il simbolismo. L’alba sulle acque del Gange diventa una sorta di liturgia cosmica:
“Tout y est lenteur et silence, comme si l’on priait avec le jour naissant. Les barques glissent, les silhouettes se baignent, les feux brûlent… c’est un monde hors du monde.”
(Loti, ibid.)
Questa visione del sacro è profondamente anticoloniale, non perché militi politicamente, ma perché rifiuta il filtro dell’occidente moderno e meccanizzato. Loti rifiuta l’India della dominazione per cercare un’India atemporale, arcaica, viva nei gesti religiosi quotidiani.
Conclusione: il sacro come esperienza esistenziale
L’esperienza indiana di Pierre Loti, narrata in L’Inde (sans les Anglais), si configura come un cammino mistico, un pellegrinaggio dell’anima più che del corpo. Varanasi non è solo una città per lui, ma un’epifania del sacro, un luogo dove il tempo si dissolve nella liturgia della vita e della morte.
Questo sguardo, pur filtrato da un’estetica occidentale e orientalistica, ci restituisce una testimonianza intensa dell’incontro tra Occidente e Oriente, tra ragione e mistero, tra il moderno e l’eterno.
Bibliografia essenziale
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Pierre Loti, L’Inde (sans les Anglais), Calmann-Lévy, Paris, 1903.
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Mark Twain, Following the Equator, American Publishing Company, 1897.
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Romain Rolland, Mahatma Gandhi, 1924.
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Edward Said, Orientalism, Pantheon Books, 1978.
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Michel de Certeau, La fable mystique, Gallimard, 1982.