l mio percorso attraverso il cinema indiano inizia con una sensazione di meraviglia e complessità. Questo mondo narrativo, vasto e articolato, non è solo un intrattenimento popolare, ma anche un potente veicolo di riflessione estetica, culturale e spirituale. È un cinema che intreccia molteplici visioni dell’India: la modernità urbana e il villaggio tradizionale, la spiritualità profonda e le tensioni politiche, la poesia e la realtà.
Tra le chiavi di lettura più interessanti per comprendere il cinema indiano vi è il confronto con la letteratura di viaggio e con la poesia del movimento. Generi che, fin dal XVII secolo, hanno costituito una forma di esplorazione del mondo — e dell’anima — per gli autori indiani. Il viaggio, nella cultura letteraria dell’India, è spesso metafora di conoscenza, di trasformazione interiore, di ricerca identitaria. Dai resoconti dei pellegrini e dei poeti itineranti, fino alle prose moderne del Novecento, si avverte il tentativo di raccontare l’incontro con l’altro senza cadere nella stereotipizzazione.
Questa stessa sensibilità si ritrova anche in alcune opere cinematografiche, capaci di raccontare l’India come spazio molteplice, stratificato, spesso contraddittorio. È interessante, a questo proposito, riflettere su come il concetto di “illusione” sia diventato uno specchio attraverso cui l’India viene letta, narrata e a volte fraintesa, sia all’interno del paese sia da parte dell’Occidente.
Il titolo L’India delle illusioni non corrisponde a un’opera cinematografica specifica e ufficiale, ma può evocare più riferimenti. Da un lato, si può pensare al documentario India – Matri Bhumi (1959) di Roberto Rossellini, opera ibrida e poetica che cerca di rappresentare un’India autentica, al di là delle immagini esotiche. Rossellini filma con sguardo umile e rispettoso, evitando ogni spettacolarizzazione. Il suo lavoro riflette il desiderio di entrare in contatto con l’essenza del paese e sfuggire ai cliché visivi tanto cari all’immaginario coloniale.
Dall’altro, più recentemente, il film All We Imagine As Light (2024) della regista indiana Payal Kapadia — premiato con il Grand Prix al Festival di Cannes — rappresenta un esempio contemporaneo di cinema poetico e politico. Ambientato a Mumbai, il film racconta la storia di due infermiere che cercano uno spazio di libertà e intimità in una città che non lascia tregua. Il titolo stesso suggerisce il confine sottile tra realtà e desiderio, visibile e invisibile, sogno e illusione. In questo senso, anche All We Imagine As Light potrebbe incarnare una “India delle illusioni”, non nel senso di inganno, ma di stratificazione di percezioni, speranze e limiti.
Infine, la nozione di “illusione” potrebbe essere interpretata in chiave più concettuale. Molti film indiani, in particolare nel cinema d’autore, affrontano il tema dell’apparenza e della verità: cosa vediamo davvero dell’India? Cosa ci viene mostrato e cosa scegliamo di vedere? L’illusione, in questo contesto, non è necessariamente un inganno, ma una forma di mediazione, una lente attraverso cui esploriamo l’alterità.
Il cinema, così come la letteratura di viaggio, diventa quindi un atto di traduzione dell’esperienza. Tradurre l’India — per un pubblico locale o straniero — significa inevitabilmente attraversare filtri, simboli, immagini. Alcuni film si interrogano apertamente su questo processo: come The Namesake (2006) di Mira Nair, che esplora l’identità diasporica e il senso di appartenenza, o Pather Panchali (1955) di Satyajit Ray, in cui il viaggio è fisico e metafisico, in una ricerca costante di senso.
In conclusione, parlare di India delle illusioni non significa smascherare una finzione, ma prendere coscienza della complessità dello sguardo. Cinema e letteratura non offrono risposte definitive, ma domande, tensioni, sfide interpretative. L’India che emerge da questi linguaggi non è mai una sola, e forse è proprio in questa molteplicità — nel continuo gioco tra apparenza e profondità — che si trova la sua forza poetica e narrativa.