**Il Misticismo Indù nel Cinema Contemporaneo: Un Viaggio tra le Ombre e la Luce**

*”La vita è un sogno, e l’amore è il suo velo”* scrive Pierre Loti ne *Le Roman d’un Spahi*, parole che sembrano eco lontana di una sapienza antica, di quella che il cinema contemporaneo ha spesso cercato di ritrarre, più o meno fedelmente, nel suo incedere tra le atmosfere oniriche e spirituali dell’Induismo.

I film, come *Baraka* (1992) di Ron Fricke o *Spring, Summer, Fall, Winter… and Spring* (2003) di Kim Ki-duk, sono finestre aperte su un mondo in cui la spiritualità non è separata dalla vita quotidiana, ma ne è parte integrante. Le sequenze si susseguono come mantra, scandendo ritmi che ricordano la danza cosmica degli dei, quel *Lila* che è gioco e illusione al tempo stesso. Le immagini, cariche di simboli, evocano la ruota del *Dharma*, il fiume *Gange* come purificazione, i *mandala* come mappe dell’universo interiore.

Eppure, il cinema occidentale spesso semplifica, riducendo il misticismo induista a scenografie esotiche o a momenti di meditazione stereotipati. Dove Loti, nel suo viaggio, cercava l’essenza delle anime, molti registri si fermano alla superficie, affascinati dal colore degli *sari* o dal suono dei *sitar*, senza cogliere il vuoto che tutto abbraccia e tutto dissolve, il *Maya* che è insieme inganno e rivelazione.

Ma in alcuni casi, come in *The Falls* (1980) di Peter Greenaway, il cinema si fa poesia, e il corpo diventa tempio, la caduta metafora di un risveglio. Lì, tra le cascate che simulano il fiume sacro, si percepisce l’eco del *Bhagavad Gita*: *”Non c’è nulla di più alto del dovere”*. E in quel dovere, forse, sta la ricerca del cinema stesso: essere specchio di un infinito che, come diceva Loti, non è mai completamente comprensibile, ma solo sognato.
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