Benares – Varanasi, Kashi – non è semplicemente una città sulla mappa dell’India. È un vortice, uno squarcio nel velo, un paradosso vivente dove il fiume del tempo sembra rallentare, addensarsi e diventare palpabile come le acque fangose e sacre di Madre Ganga. Per secoli, l’Occidente, in particolare l’immaginario letterario inglese, è stato attratto da questa ferita luminosa nel tessuto mondano del mondo, cercando non solo lo spettacolo, ma uno scorcio di quella “India Mistica” sussurrata nei tomi impolverati e nei racconti dei viaggiatori. Le loro penne d’inchiostro hanno incontrato l’indelebile macchia di fede e decadenza della città, producendo narrazioni che oscillano tra profonda meraviglia e incomprensione coloniale, cercando per sempre di catturare il profumo dei tagete mescolato a quello del fumo di legna e della mortalità.
Pensiamo ai primi emissari, soldati e amministratori che scendevano dalle chiatte sui ghat, i loro colletti rigidi che appassivano nella foschia umida. I loro rapporti a Londra parlavano di riti sconcertanti, di corpi che bruciavano apertamente, di asceti cosparsi di cenere che compivano imprese impossibili. Era caos, sì, ma un caos che ronzava di un potere sconosciuto e inquietante. Non vedevano misticismo, forse, ma idolatria e superstizione – eppure la pura intensità della fede, il modo in cui vita e morte si abbracciavano così pubblicamente sui gradini di pietra che scendevano nel fiume sacro, si insinuava nella loro coscienza. Era una sfida al mondo ordinato e razionale che rappresentavano, un costante e pungente monito di forze al di là dei libri mastri e del fuoco dei cannoni.
Poi vennero i cercatori, i Romantici e più tardi i Vittoriani, con i cuori affamati di trascendenza oltre i confini grigi dell’Inghilterra industriale. Come falene attratte da una fiamma sacra, arrivarono con il desiderio del sublime di Shelley o la ricerca di Tennyson del “lontano evento divino”. Benares offriva un palcoscenico dove il dramma divino si svolgeva quotidianamente, crudo e senza copione. Camminavano per le strette galis, con i sensi assaliti – lo scontro delle campane del tempio che competeva con le grida dei chai-wallahs, l’odore inebriante dell’incenso che lottava contro il gusto acre dei roghi funebri a Manikarnika Ghat. Qui, cercavano di conciliare la bellezza delle preghiere dell’alba, la luce dorata che si riversava su migliaia di teste chine, con la cruda realtà della malattia e dell’indigenza che erano mal equipaggiati per comprendere.
La città, quindi, divenne una potente metafora nella scrittura occidentale. Spesso era il punto d’arrivo di un viaggio spirituale, il luogo dove la saggezza orientale o guariva profondamente l’anima occidentale o ne spezzava completamente la capacità di razionalizzare il mondo. Rudyard Kipling, ad esempio, catturò la scala implacabile e non umana dell’esistenza indiana, dove il ciclo di vita e morte, così visibile a Benares, sminuiva ogni sforzo umano individuale. Più tardi, scrittori come E. M. Forster, pur concentrandosi su altri aspetti della vita indiana, usarono questa intensità spirituale come sfondo contro cui la formalità britannica sembrava fragile e inadeguata.
Nella letteratura e nei resoconti di viaggio contemporanei, Varanasi rimane il crogiolo definitivo. Il viaggiatore moderno, armato di una macchina fotografica e forse di un senso di colpa post-coloniale, cerca ancora l’esperienza autentica e incontaminata. Eppure, la città li assorbe semplicemente nel suo presente continuo e travolgente. Il Gange rimane il personaggio duraturo, il testimone silenzioso di ogni transazione—spirituale, commerciale, mortale. Benares non rivela facilmente i suoi segreti; presenta semplicemente il paradosso ultimo della fede e della finalità messo a nudo, sfidando ogni osservatore, passato o presente, a definire la linea tra il sacro e il profano, una linea che, in questa città, si dissolve ad ogni goccia d’acqua che scorre verso il mare.