Cinema e spiritualità a Varanasi: un viaggio tra misticismo e realtà
Varanasi, una delle città abitate più antiche del pianeta, non è solo un luogo geografico. È un’entità spirituale, una presenza che respira, una soglia dove il confine tra il visibile e l’invisibile si dissolve. Da secoli, la sua atmosfera sacra e la sua posizione sulle rive del Gange la rendono un epicentro di pellegrinaggio, di vita e di morte. Nel corso del Novecento e oltre, questa potenza evocativa ha trovato nel cinema il suo più moderno e potente interprete. L’occhio della telecamera ha cercato di catturare l’essenza di Varanasi, ma lo ha fatto in modi sorprendentemente diversi, a seconda che a impugnarla fosse un regista occidentale affascinato dal misticismo esotico o un cineasta indiano immerso nella sua stessa cultura. Attraverso il confronto tra queste due prospettive, si può comprendere come la spiritualità della città sia stata raccontata non come un semplice sfondo, ma come il motore di ogni narrazione.
Varanasi nell’immaginario cinematografico: un personaggio, non un’ambientazione
Nel cinema, Varanasi è un personaggio a tutti gli effetti, con un suo passato, un suo ritmo e una sua anima. L’iconografia della città è diventata un linguaggio universale per esprimere temi di profonda spiritualità e contemplazione. Le immagini dei ghat, le monumentali scalinate che scendono verso il fiume, sono diventate un simbolo di passaggio. I sadhu, asceti e figure religiose, rappresentano la rinuncia e la ricerca di un’illuminazione. Il Gange stesso non è solo un fiume, ma una dea vivente, un’entità che purifica, guarisce e accoglie le ceneri dei defunti.
I registi che scelgono Varanasi come location sono consapevoli di attingere a questo serbatoio di simboli. La città offre una scenografia naturale dove la vita è in costante dialogo con la morte, il caos dei bazar con il silenzio dei templi. Questo equilibrio precario, ma eterno, è il cuore della sua potenza cinematografica.
Lo sguardo occidentale: la spiritualità come ricerca personale
Il cinema occidentale ha spesso affrontato Varanasi con una fascinazione quasi romantica, vedendola come una destinazione finale per la ricerca spirituale di un protagonista estraneo alla cultura. In queste narrazioni, la città è un catalizzatore di trasformazione, un luogo dove un individuo proveniente dal mondo razionale e materialista può finalmente riconnettersi con una dimensione più autentica e primordiale. Il misticismo, in questa ottica, è un fenomeno esterno e quasi “visivo”.
Un film emblematico di questa tendenza è Verso Benares (1961), opera di G. Vignali e G. Prata, che segue il viaggio interiore di una donna italiana. La sua immersione nella città non è un’esperienza passiva, ma una prova che la porta a mettere in discussione le sue stesse certezze. Il film utilizza i rituali, le folle e i colori di Varanasi per rappresentare il tumulto interiore della protagonista, con il Gange che diventa una metafora di purificazione e rinascita. Questa rappresentazione, seppur potente, tende a focalizzarsi sull’impatto della città sull’outsider, tralasciando spesso le complessità e le contraddizioni della vita locale, offrendo una visione della spiritualità come un’esperienza individuale e quasi disconnessa dal contesto sociale.
Il cinema indiano: la spiritualità radicata nella realtà
Al contrario, il cinema indiano, in particolare quello d’autore, presenta una visione di Varanasi molto più intima e complessa. Per un regista indiano, la spiritualità della città non è una scoperta, ma una condizione di vita. La telecamera non cerca il misticismo, ma lo trova in ogni angolo, perché è intrecciato al tessuto stesso dell’esistenza quotidiana. La spiritualità non è un obiettivo da raggiungere, ma il linguaggio con cui si affrontano le sfide di tutti i giorni.
In film come Mamta (1966), la città è lo sfondo di drammi umani e di storie di amore e perdita. Il protagonista, un devoto, non cerca l’illuminazione, ma la ritrova nelle sue lotte quotidiane, tra le preghiere e la ricerca della sua amata. Anche in Ganga Ki Saugandh (1968), il Gange non è solo un fiume sacro, ma un testimone di ingiustizie e vendette. La spiritualità si manifesta nel giuramento fatto sul fiume, che diventa un atto di giustizia. Questi film dimostrano come, per la prospettiva nativa, il sacro e il profano coesistano in un’armonia spesso brutale, ma sempre autentica. Le cerimonie funebri non sono un’attrazione, ma una parte della vita, un promemoria costante del ciclo di morte e rinascita.
Varanasi come “Ghat of Life and Death”
Il tema più potente che accomuna le diverse visioni cinematografiche è l’intersezione tra vita e morte. Varanasi è l’unico luogo al mondo dove il ciclo dell’esistenza è visibile in ogni momento. Le persone si immergono nel Gange per purificarsi, mentre a pochi metri di distanza i ghat sono illuminati dai falò che cremano i corpi dei defunti. Questa coesistenza di nascita (o rinascita spirituale) e morte offre ai cineasti una tela su cui dipingere domande universali sulla mortalità, la reincarnazione e il significato dell’esistenza.
Il cinema ha saputo cogliere questa specificità: la vita in Varanasi è una preparazione costante alla morte, vista non come una fine, ma come una transizione. Le inquadrature che mostrano un bambino che gioca sulla scalinata, mentre in sottofondo si vede il fumo di un rogo funebre, sono un’eloquente dichiarazione filosofica. La spiritualità non è un’astrazione, ma una realtà fisica che si respira, si tocca e si vive.
Conclusione: Varanasi oltre il misticismo
In definitiva, il cinema, con i suoi sguardi diversi, ha saputo mostrare che la spiritualità di Varanasi non è un’unica entità. Per l’occhio occidentale, è un’esperienza di rottura, una ricerca di senso. Per quello indiano, è una condizione di continuità, un’armonia tra il sacro e il terreno. In entrambi i casi, però, la città si afferma come una forza narrativa ineguagliabile, un personaggio la cui presenza eleva ogni storia al di là del semplice racconto, trasformandola in una profonda riflessione sulla natura umana e sul suo posto nell’universo.