Letteratura e cinema: il misticismo di Varanasi

Varanasi, una delle città più antiche del mondo, è molto più di un semplice agglomerato urbano; è un’entità spirituale, una soglia tra il mondo dei vivi e quello dei defunti. Sulle rive del Gange, la città incarna una dualità intrinseca, dove il caos della vita quotidiana si fonde con la solenne quiete dei riti funebri e delle preghiere millenarie. Questo misticismo, un tempo tramandato attraverso la letteratura sacra e i testi filosofici, ha trovato nel XX secolo nuove forme di espressione nella letteratura e nel cinema, offrendo interpretazioni profondamente diverse a seconda della prospettiva, che sia quella di un occhio esterno o di uno interno alla cultura indiana.

La Narrazione Occidentale: Varanasi come veicolo di Trasformazione

Nella letteratura e nella cinematografia occidentale, Varanasi è stata spesso ritratta attraverso il prisma dell’esotismo e della ricerca spirituale. La città non è semplicemente un’ambientazione, ma una forza attiva che agisce sulla psiche del protagonista, solitamente un viaggiatore occidentale alla ricerca di un senso più profondo. Il film italiano Verso Benares (1961), di G. Vignali e G. Prata, ne è un esempio lampante. La protagonista, una giovane donna italiana, non visita la città per ammirarne la bellezza, ma per intraprendere un viaggio interiore. Le sue esperienze tra i ghat e i sadhu non sono aneddoti di viaggio, ma tappe di un percorso di illuminazione personale. In questa visione, il misticismo di Varanasi è un fenomeno che si manifesta all’outsider, un’entità che destabilizza le certezze del mondo moderno e razionale per offrire una prospettiva spirituale più autentica. La città diventa un veicolo, un mezzo per il raggiungimento di un fine interiore, e la sua complessità sociale ed economica viene spesso lasciata in secondo piano a favore di una rappresentazione più poetica e rarefatta.

La Prospettiva Indiana: Il Sacro intrecciato al Quotidiano

Il cinema indiano, in contrasto, non romanticizza Varanasi come una destinazione spirituale, ma la vive come un’entità inseparabile dalla vita dei suoi abitanti. I registi indiani non si chiedono “cosa la città può fare per me?”, ma piuttosto “come la città vive dentro i suoi abitanti?”. In film come Mamta (1966) e Ganga Ki Saugandh (1968), il misticismo non è una forza trascendente, ma un’aura intrinseca a ogni aspetto della quotidianità. La città è un personaggio a tutti gli effetti, che respira, soffre e celebra insieme ai suoi protagonisti. Il dramma umano dell’amore, del conflitto sociale e della vendetta si svolge tra i ghat, con il Gange a fare da testimone silenzioso e solenne. Le abluzioni rituali, le preghiere mattutine e le cerimonie funebri non sono momenti spettacolari per un occhio esterno, ma elementi organici di una vita che ha accettato la coesistenza del sacro e del profano. Il misticismo di Varanasi, in questa prospettiva, non è un’esperienza da raggiungere, ma una condizione dell’esistenza.

Una Conclusione Comparativa: Sguardo e Sentimento

L’analisi comparata delle due rappresentazioni rivela non solo una differenza di stile cinematografico, ma anche una profonda discrepanza filosofica. La visione occidentale, pur affascinata, tende a isolare il misticismo dal suo contesto sociale e a renderlo un’esperienza personale. La visione indiana, d’altra parte, lo integra completamente, mostrandolo come una parte inestricabile del tessuto culturale e umano della città. Mentre il cinema occidentale cerca il misticismo in una Varanasi idealizzata, quello indiano lo trova nella sua essenza più cruda e reale: nei volti dei pellegrini, nei sorrisi dei mercanti e nella cenere che si disperde nel fiume. Entrambe le narrazioni, pur partendo da punti di vista opposti, confermano l’immutabile potere di Varanasi come luogo dove la dimensione spirituale non è un’eccezione, ma la regola.